Il Vangelo della domenica
01 aprile 2012
(Mc 14,1-15,47)
Il racconto
della Passione di Gesù, secondo
l’evangelista Marco, ci accompagna in
questo inizio della Settimana Santa e
c’invita a riflettere sul “mistero del
male”, che Dio stesso ha voluto subire
sulla propria pelle mediante il Figlio
suo Unigenito, divenuto Uomo in Gesù di
Nazareth per portare su di sé il peso
dell’iniquità del mondo intero,
inchiodano alla croce l’arroganza e la
malizia del principe delle tenebre,
simboleggiato dal “serpente” tentatore
che aveva indotto i progenitori alla
colpa originale nel giardino di Eden. Il
racconto inizia con le macchinazioni
messe in atto dai membri del Sinedrio,
decisi a farla finita con Gesù di
Nazareth, considerato un pericoloso
innovatore religioso e capace di agire
sulla coscienza degli ebrei grazie alle
sue qualità taumaturgiche indiscusse.
Mentre Gesù consuma una delle sue ultime
cene a Betania, sita a circa 3
chilometri da Gerusalemme, in casa di un
certo Simone, guarito da Gesù dalla
terribile malattia della lebbra,
lasciandosi ungere nella circostanza da
un donna grata al Maestro per qualche
beneficio ricevuto dalla sua bontà e
misericordia, Giuda Iscariota consuma il
suo tradimento in cambio di qualche
moneta da spendere in chissà quale tipo
di investimento. A distanza di pochi
giorni dalla cena di Betania,
avvicinandosi la Pasqua ebraica, Gesù
decide di celebrarla a Gerusalemme
insieme ai suoi discepoli e nel Cenacolo
trasforma la cena pasquale nel pasto
della Nuova Alleanza, ultima e
definitiva chiamata di Dio rivolta a
tutta l’umanità nel segno
dell’Eucaristia. Sotto le specie del
pane e del vino, Gesù consegna a tutti
gli uomini la sua sacra Persona, umana e
divina, come “cibo spirituale” vero e
reale per placare la fame e la sete di
verità, di giustizia, di pace e di amore
di cui ogni individuo, venuto alla luce
in questo mondo, avverte il bisogno
acuto ed irresistibile. Nonostante
questo supremo gesto d’amore e di totale
donazione di sé, Gesù sa benissimo come
andranno le cose di lì a breve ed
annuncia a Pietro il suo rinnegamento,
cui farà da contrappunto l’assordante
canto d’un gallo. Il buon Pietro si
ribella all’idea di dover manifestare
così spudoratamente la sua codardia e
cerca in tutti i modi di rassicurare
Gesù circa la sua assoluta fedeltà nei
suoi confronti, ma i fatti dimostreranno
che Gesù ha visto giusto, poiché conosce
bene il cuore dell’uomo, ardimentoso a
parole ma pronto a squagliarsi al sole
accecante ed infuocato della prova.
L’istinto di conservazione va a
braccetto con la paura e Pietro imparerà
a sue spese cosa significa provare il
rimorso per un coraggio mancato e per un
amore rinnegato. È tempo di lotta (agonia)
tra la paura della sofferenza e della
morte e la ferma volontà di compiere
fino in fondo il proprio dovere di
“salvatore” e redentore dell’umanità in
ossequio ed obbedienza alla suprema
volontà del Padre. Nel Getsèmani Gesù è
solo, in angosciato colloquio col Padre.
I discepoli sono a due passi ma dormono,
storditi dalla stanchezza e da un
torpore spirituale che a breve li farà
scappare, inorriditi e scandalizzati
dalla prospettiva della croce. Al
culmine dell’angoscia, Gesù trova nella
preghiera confidente e filiale col Padre
la forza per vincere la paura
dell’imminente passione e si carica
sulle spalle anche il terrore dei suoi
discepoli. Ora è pronto a fronteggiare
il suo destino di dolore e di gloria.
Per arrestare Gesù sono accorsi in
tanti, una folla armata di spade e
bastoni, guidati da Giuda Iscariota,
il quale non trova di meglio che
consumare il proprio tradimento con un
bacio ripetuto più volte, simbolo
di un amore puro e casto
intenzionalmente calpestato ed avvilito.
Condotto davanti ai membri giudicanti
del Sinedrio, il tribunale religioso ed
amministrativo ebraico, Gesù subisce in
silenzio pressioni, minacce e false
testimonianze. Solo l’esplicita domanda
di Caifa smuove Gesù, che senza paura e
senza tanti giri di parole dichiara di
essere il Cristo (o Messia), il
Figlio del Benedetto, pur sapendo
di poter essere accusato di blasfemia.
Ma se gli ebrei eranono così ansiosi
della venuta del famoso Messia, perché
accusare Gesù di blasfemia una volta
incassata la sua dichiarazione di essere
il Cristo tanto atteso da secoli? Ovvio,
i giudei si aspettavano ben altro come
Condottiero vittorioso e Gesù non
possedeva il
cliché
del
messia politico e militare capace di
sbaragliare le legioni di Roma. Che
farsene di un messia dimesso, per giunta
Galileo, capace solo di predicare il
perdono e la misericordia anche nei
confronti dei nemici? Il processo di
Gesù davanti al Sinedrio ha tutti i
connotati di una farsa, ribadita poi da
quello consumato davanti all’autorità
romana, con l’aggravante di una violenza
gratuita ed ingiustificata, considerata
la passività del prigioniero che non
reagisce né agli insulti né alle
percosse ed agli sputi. Va da sé che la
violenza verbale e fisica sia tipica
delle persone frustrate e con qualche
problema psicologico di troppo!
Mentre
all’interno del Sinedrio si consuma il
dramma di una condanna ingiusta ed
iniqua nei confronti di Gesù, nel
cortile esterno le cose non vanno meglio
a Pietro, che incalzato dalla servitù
del sommo sacerdote, realizza la
predizione del suo Maestro: prima che
il gallo canti due volte, mi rinnegherai
tre volte. Sopraffatto dalla paura e
superata la scarica adrenalinica che
poco prima, nel giardino del Getsèmani,
l’aveva indotto a sfoderare la spada per
colpire il servo del sommo sacerdote
staccandogli l’orecchio, per tre volte
Pietro nega di conoscere Gesù, ma il
canto di un gallo lo riporta bruscamente
alla realtà della sua codardia:
allora Pietro si ricordò delle parole di
Gesù … e proruppe in pianto. Un
pianto di rimorso, un pianto di speranza
nel perdono del Signore, che conosce la
debolezza del cuore dell’uomo.
Passano
poche ore e Gesù si ritrova, insonnolito
e dolorante per le percosse ricevute nel
corso della notte. Il procuratore romano
Ponzio Pilato non ha il potere di
giudicare questioni religiose, che
esulano dalla sua competenza ed i giudei
hanno confezionato un’accusa politica
per Gesù, allo scopo di farlo condannare
cogliendo due piccioni con una fava
sola: eliminare Gesù perché rappresenta
un pericolo per la retta fede degli
ebrei (reato di bestemmia e di eresia),
facendolo condannare dai romani col
pretesto che si tratta di un agitatore
politico, in quanto si è dichiarato re
dei giudei, anche se non è vero niente.
Pilato va al sodo: sei tu il re dei
giudei? Sorprendentemente, il
prigioniero lo spiazza: tu lo dici.
Una risposta che corrisponde ad un “sì”
chiaro e tondo e che, al tempo stesso,
indica il procuratore romano come autore
responsabile e consapevole del
riconoscimento della regalità di Cristo.
Pilato tratta Gesù come vero Re dei
giudei, mandandolo in croce per reato di
“lesa maestà” nei confronti
dell’imperatore di Roma, signore unico
ed incontrastato di tutto l’impero
romano. L’aspetto esteriore di Gesù è
assai poco regale e Pilato ha più di un
dubbio che quel prigioniero, così
taciturno e poco propenso a dialogare
con lui ed a rispondere al suo
interrogatorio, si sia davvero
proclamato re e suppone che i giudei
siano ricorsi a qualche ignobile trucco
per farlo condannare da lui. Secondo
l’usanza, a Pasqua il procuratore di
Roma ha la facoltà di far scegliere dai
giudei chi condannare e chi graziare tra
due delinquenti destinati alla croce. I
giudei scelgono di liberare un brigante,
un rivoltoso, un fanatico guerrigliero.
Gesù deve subire, così, il supplizio
terrificante della flagellazione e del
patibolo al posto di un delinquente
patentato. Più Pilato chiede il motivo
di quella scelta (è chiaro persino a lui
che Gesù è un personaggio politicamente
innocuo) e più i giudei gridano di
crocifiggerlo. Allucinante. I
giudei, nazionalisti fanatici ed
integralisti religiosi a tutto tondo,
capaci di odiare con tutta la forza de
loro animo gli occupanti romani, hanno
chiesto proprio ad un romano di uccidere
un loro connazionale, non prima che
fosse debitamente torturato, umiliato,
deriso. Con la complicità del nemico
romano, i giudei mandano a morire il
loro Re. Lungo la strada che conduce al
Calvario o Gòlgota, lunga poche
centinaia di metri dal pretorio nel
quale si è svolto il processo davanti al
procuratore, Gesù vacilla, cade e
rallenta le procedure per l’esecuzione
capitale. I soldati romani, addetti alla
crocifissione costringono un certo
Simone di Cirene a prendere sulle
proprie spalle il legno trasversale
della croce, divenuto troppo pesante per
uno sfinito Gesù, fiaccato dalle ferite
brutali della flagellazione e dal sangue
che è uscito copiosamente da ogni
centimetro quadrato del suo corpo
martoriato. Alle nove del mattino (ora
terza), Gesù viene inchiodato sulla
croce a mente lucida, perché ha
rifiutato di farsi stordire dal vino
aromatizzato con la mirra. I chiodi
gli hanno procurato dei dolori
lancinanti indicibili lungo le braccia,
le gambe ed il corpo intero, per non
parlare di quella corona di spine che
gli causa fitte indicibili ad ogni
minimo movimento della testa. E tutto
senza un lamento od un’imprecazione!
Attorno al crocifisso è presente tutta
l’umanità, rappresentata da Maria, la
madre di Gesù e dalle altre pie donne,
dai soldati carnefici, dalla gente che
insulta il moribondo insieme ai
sacerdoti ed agli scribi, dai ladroni ed
assassini condannati insieme a Cristo.
In lontananza, ci sono pure gli
apostoli, spaventati e delusi per la
piega presa dagli eventi e per aver
visto infrangersi su una croce i loro
sogni di gloria ed una folla anonima di
pellegrini, diretti verso la Città
Santa, ognuno col peso dei propri
pensieri e delle preoccupazioni della
vita quotidiana, ognuno col suo carico
di speranze in un futuro reso incerto
dalle vicende politiche e sociali della
nazione. Qualcuno compiange Gesù, che
sta agonizzando e si ricorda dei suoi
gesti di bontà e delle sue parole di
misericordia, altri sono stati
influenzati dalle argomentazioni dei
capi ebrei e lo maledicono od insultano,
qualcun altro evita di esprimere giudizi
e tira dritto per la sua strada nel
timore di essere molestato da quei
fanatici che, come falchi, si aggirano
sul luogo dell’esecuzione capitale per
controllare che Gesù muoia davvero e che
non s’inventi qualche prodigio che lo
scampi da morte all’ultimo momento:
salva te stesso scendendo dalla croce!
… Il Cristo, il re d’Israele, scenda
ora dalla croce, affinché vediamo e
crediamo! Da mezzogiorno alle tre
del pomeriggio, il cielo si rannuvola e
si fa buio in modo inquietante. Gesù,
prima di morire, prega citando le prime
parole del salmo 22 [21]: Dio mio,
Dio mio, perché mi hai abbandonato?
Non è, come può sembrare a prima vista,
la preghiera di un disperato che si
sente abbandonato da Dio, ma
l’invocazione di chi fiduciosamente
sollecita l’intervento di Dio nel
momento più tragico e spaventosamente
angosciante della propria vita, proprio
come recita il salmo medesimo citato da
Gesù: eppure, tu sei il Santo, tu
dimori tra le lodi d’Israele. In te
hanno confidato i nostri padri, hanno
confidato e tu li hai liberati. I
presenti sentono la preghiera mormorata
da Gesù e si aspettano ironicamente che
giunga Elia a liberarlo dalla croce, ma
Gesù emesso un grande grido, spirò.
Nello stesso momento, il velo del
Tempio, che separava la trascendenza di
Dio dalla materialità stessa della
natura umana, rendendo le due realtà
inavvicinabili ed intoccabili, si
squarcia per l’intera sua lunghezza, a
significare che, con Gesù, il divino
irrompe nella concretezza della storia
umana e che l’uomo può, finalmente,
essere inserito a pieno diritto
nell’ambito della vita divina. Dio e
l’uomo non sono più così distanti tra
loro e non hanno più bisogno di altri
mediatori per comunicare tra loro, se
non il solo Gesù Cristo, la cui morte fa
esclamare al centurione romano,
responsabile dell’esecuzione materiale
del Signore, la prima professione di
fede manifestata da un pagano:
davvero quest’uomo era Figlio di Dio!
La sepoltura di Gesù, sollecitata da
Giuseppe d’Arimatea, è concessa da
Pilato, meravigliato della fine così
rapida del condannato di nome Gesù, al
punto da voler chiederne conferma al
centurione stesso, comandante del
manipolo di soldati, esecutori materiali
della condanna capitale. Una pietra
viene collocata come sigillo
sull’ingresso del sepolcro, nel quale è
stato deposto il corpo senza vita del
Signore. Gli uomini hanno voluto tappare
la bocca a Dio per impedirgli di parlare
ancora al cuore dell’uomo, ma Gesù,
Parola incarnata di Dio, esploderà tutta
la sua potenza di amore e di
misericordia il giorno dopo il sabato.
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